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È Gesù che sale in barca   versione testuale
Intervista a mons. Francesco Montenegro, Arcivescovo metropolita di Agrigento, in occasione del viaggio del Papa a Lampedusa


In occasione della visita pastorale di Papa Francesco nelle isole siciliane di Lampedusa e di Linosa, nella Diocesi di Agrigento, abbiamo posto alcune domande a mons. Francesco Montenegro, Arcivescovo metropolita di Agrigento, Presidente della Fondazione "Migrantes", il quale, alcune settimane fa, durante la visita ad limina dei Vescovi della Sicilia, aveva donato al Pontefice una croce realizzata con il legno delle barche dei migranti approdate a Lampedusa. Mons. Montenegro si dice «commosso e felice» per la visita di Papa Francesco «in questa periferia del mondo, da sempre crocevia di popoli e porta dell’Europa sul Mediterraneo».
 
 
1) Molti stranieri arrivano con pericolo in Italia, per cercare una possibilità di vita e lasciano i propri affetti, la famiglia, nel Paese di origine. Un doloroso sradicamento…
 
«È questa la ferita più grande, la rottura psicologica, morale e spirituale, più lacerante, che lascia il segno per tutta la vita: la separazione dalla propria terra, dai propri affetti, dalla propria famiglia. Questo sradicamento dall’ambiente affettivo e familiare è la maggiore causa di sofferenza e la ragione di tante difficoltà di integrazione nel nuovo contesto. Sono persone ferite nel cuore e nell’anima, che hanno bisogno dell’abbraccio della comunità che le accoglie, per sentirsi in questa una famiglia».
 
2) Cosa significa questa visita del Papa a Lampedusa, l'isola di maggiore approdo dai Paesi del Sud del Mediterraneo, che più vive il dramma della migrazione e, allo stesso tempo, è un esempio di solidarietà?
 
«La visita del Papa è una grazia speciale per la chiesa agrigentina e per tutta la comunità cristiana. La sua presenza ci aiuta a guardare la realtà e la storia con gli occhi di Dio. Papa Francesco ha detto che la vita si comprende meglio nelle periferie ed è li che bisogna essere e impegnarsi con l’amore di Cristo. Lampedusa è alla periferia dell’Europa. La presenza di questo Papa, che si affaccia al balcone delle povertà per un abbraccio al mondo, ci aiuterà a capire meglio la sofferenza di tanti figli di Dio e che la migrazione non è una emergenza, ma una condizione ordinaria. È un invito a conoscere meglio le nostre comunità, le famiglie, i ragazzi, gli immigrati, gli emigrati, e anche a prendere il largo, aprire gli orizzonti della nostra capacità di dare. La solidarietà e l’accoglienza fraterna della gente di Lampedusa, generosa, tra tante difficoltà, sono un esempio di come possiamo stare vicini l’uno accanto all’altro e aprire le braccia per fare posto al diverso nel nostro cuore e nella nostra vita».
 
3) Crescono le famiglie immigrate. Come la società e la nostra cultura dovrebbero adeguarsi?
 
«Non è un problema di “adeguamento”. L’integrazione è mettere in comune la ricchezza di vita e di cultura che ciascuno porta. Insieme, dobbiamo imparare la via della convivenza, l’uno accanto all’altro, l’uno con l’altro e non contro l’altro. I bisogni delle persone sono universali. La scelta di Lampedusa per il suo primo viaggio pastorale è un messaggio forte di Papa Francesco alla Chiesa e al mondo: non si può più ignorare il grido di dolore di tanti figli di Dio, la domanda di giustizia. La sua presenza è un dono speciale, per aiutarci a capire come far salire Gesù sulla nostra barca, fargli spazio nella nostra vita insieme, perché senza di Lui non poggeremo mai i piedi sulla terra promessa. Gesù non ci abbandona e con Lui non siamo mai soli».
 
4) C'è una pastorale familiare dei migranti? Quali sono i bisogni di queste famiglie?
 
«Pochi tra i disperati che lasciano la terra di origine e approdano in altre terre riescono a fare famiglia. Qualcuno porta con sé qualche familiare, una parte della famiglia, la maggior parte sono qui soli. I ricongiungimenti sono molto difficoltosi. La pastorale ha il compito di ascoltare i bisogni delle persone e andare loro incontro. Si tratta, allora, di far trovare nuove radici in questa terra in cui vivono, far vivere il loro essere famiglia insieme alle altre famiglie, sentendosi una famiglia con la comunità. Non c’è una regola preconfezionata di pastorale familiare. La pastorale della famiglia è nella stretta di mano e il sorriso che sappiamo dare, per far sentire ciascuno una persona degna di essere amata, per far dire a chi è immigrato: io sono come loro. La pastorale è andare con il cuore in mano vicino alle pecorelle, soprattutto le più ferite e le più fragili».
 
5) È in aumento la migrazione femminile, anche dai Paesi arabi. Quali sono i problemi che incontrano le donne immigrate e come si può favorire l'integrazione?
 
«La donna ha sempre un prezzo più alto da pagare, una fatica di vivere maggiore, in un mondo che è sempre maschilista. Questo discorso vale per le donne immigrate come per le nostre donne, figlie di società cosiddette civilizzate. Molte donne immigrate sono costrette a scendere a compromessi per sopravvivere e prendono strade di vita che devono subire. Essere donna è una povertà, e talvolta una povertà maggiore. La lotta per il rispetto della donna è una priorità nell’impegno pastorale».
 
6) I bambini sono il futuro, la speranza e la realizzazione di ogni sacrificio di chi parte dal Paese di origine, perdendo una parte di sé. In che modo la Chiesa può collaborare con le Istituzioni civili per prendersi cura dei minori, affinché si sentano a pieno titolo figli della comunità che li accoglie e in cui crescono?
 
«La Chiesa fa il suo lavoro, con l’amore e la dedizione dei cristiani impegnati, con le numerose strutture di accoglienza e formative, “a braccetto” – in senso positivo – con le istituzioni civili, per aiutare i bambini a diventare adulti nella comunità. La Chiesa è la famiglia di Dio. Ogni bimbo è il volto di Dio, con una storia, con dei bisogni, materiali e spirituali. Va aiutato a diventare uomo sotto lo stesso Cielo, che è per tutti».
 
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